Critics

QUANTA PARTE DI TEMPO

Di Vittorio Sgarbi

L’operazione più intelligente che poteva compiere un artista dotato come nessuno nel disegno è quella decisa da Antonio Finelli. La matita scruta, definisce, incide; la carta bianca si anima di forma, e vive. Nella serie presentata in questa occasione, Finelli sceglie come modelli volti di persone anziane solcati dalle rughe: sono persone conosciute, di un mondo destinato rapidamente a scomparire. Ma ora, per sempre, eternate nel segno di Finelli.

L’attrazione per i vecchi ricorda quella di un’altro eccellente disegnatore dal temperamento più lirico e intimista: Andrea Martinelli. I due artisti sono ispirati dalle carte geografiche dei volti degli anziani e da una attitudine quasi religiosa nel contemplarli. Nei volti dei vecchi c’è il tempo, c’è la storia; ma c’è anche un legame antico con le proprie radici. È questo il sentimento che muove Martinelli. In Finelli, invece, i vecchi non sono i propri vecchi; né egli circoscrive un lessico famigliare, un oscuro ritorno alle origini. I vecchi sono il popolo, un mondo di persone vicine, destinate a estinguersi, e di cui egli intende commemorare l’esistenza, nel suo perduto Molise, come in ogni luogo del mondo.

Le giovinezze sono diverse, nuove, vitali. La vecchiaia ci fa uguali. EXPECTO DONEC VENIAT IMMUTATIO MEA. L’immutatio è la morte, e prima, la vecchiaia. Un giovane. I vecchi. Nella “Vecchia” di Giorgione leggiamo: “col tempo”. Di lì parte, e dal sentimento del tempo implacabile, come “memento mori” davanti al trionfo del tempo, Antonio Finelli.

Il suo metodo è quello del naturalista, del classificatore. Ma non vuole rischiare di ridurre la sua impresa a quella di uno scienziato o di un antropologo; e così, sul piano creativo, ricorre al non finito. A ben guardare, il suo non finito non è la tecnica adottata da Michelangelo fino ai neoclassici, ma è uno stacco netto, una mutilazione formale. In letteratura si direbbe una preterizione. Per consentirsi un disegno perfetto, impeccabile, minuzioso, Finelli adotta una tecnica negazionistica.

La realtà presente dei vecchi è già frammentaria, consumata; attraverso questo espediente del vuoto Finelli si concederà la massima definizione di ciò che vede e di ciò che è; e il nulla. Il nulla dialoga con il tutto. Esiste. Mentre la nitidezza del segno pretende di fare concorrenza alla fotografia. Finelli non vuole correre questo rischio. Va oltre la fotografia, e rischia di commuoverci nel descrivere la pelle avvizzita, le bocche rattrappite e sdentate, la zona degli occhi con occhiali inesorabilmente stagliati contro un fondo bianco.

Finelli non è interessato alle anime e alla psicologia, gli basta la superficie sulla quale si muove come un esploratore del deserto. Quegli occhi vuoti! Quelle labbra rattrappite! Quella verità ineludibile! C’è profonda pietà nello sguardo di Finelli; ma è perché egli guarda la realtà per quello che è, e quei volti veri si fanno maschere, hanno gli occhi come le statue antiche, vuoti e suggestivi.

A Finelli basta una parte della tessitura di un volto. All’improvviso la luce solarizza e brucia una parte: ciò che resta se ne esalta, e lo sottrae a un realismo facile come quello di Teofilo Patini. Questione di risparmio. Anche la declinazione sentimentale che potrebbe accompagnare la memoria di quei volti. Essi si trasformano in fantasmi, in apparizioni. La loro essenza è nel vuoto. In molti casi questo viaggio verso il nulla è sottolineato dagli occhiali e, forse meglio, dalle loro montature.

Oltre alle lenti non ci sono mai gli occhi ma il vuoto, il niente. Il frammento di volto che vediamo, allora, è come un reperto archeologico di una umanità presente e vivente, che ci appare con evidenza come la maschera di Agamennone a Micene, e ci parla dall’infinito silenzio del tempo. Il non essere dà senso all’essere, lo fa esistere non come fenomeno ma come noumeno, come essenza della umanità, sul punto di perdersi.

Forse da questo deriva una impalpabile sensazione di nostalgia che questi volti trasmettono. E non perché si proiettino verso la morte. Ma perché sono, comunque, testimonianze di vita. E a quel mondo di fantasmi, presenti e vivi, Finelli si affida… Ne “Il Tempo in posa” Gesualdo Bufalino pubblica quattrocento lastre fotografiche fra le quali l’immagine di un vecchio che tiene un libro dal titolo: “Quando noi morti ci destiamo”. I vecchi di Finelli sono perpetuamente desti. Fissi davanti alla morte.

EXPO ARTE ITALIANA

Di Vittorio Sgarbi

[…] Nella ricerca per l’Expo di Milano, dovendo documentare, con capricciosa difficoltà, almeno un’artista per ogni regione mi sono imbattuto, nel Molise non particolarmente florido di proposte. Trovando invece Antonio Finelli che avrebbe guardato con interesse anche al suo omonimo Giuliano. Una piccola scoperta che ridonda in Villa Bagatti Valsecchi, e dimostra come talvolta gli artisti veri si nascondono. […]

IL CONTATTO E IL RITORNO

Di Lorenzo Canova

Questa mostra antologica rappresenta un importante approdo nel percorso artistico di Antonio Finelli, uno tra gli artisti più interessanti delle ultime generazioni, capace di usare il disegno in modo intelligente e innovativo, aprendo le sue opere anche a una dimensione ambientale e installativa.

Finelli, difatti, si è imposto inizialmente all’attenzione del pubblico e della critica con le sue opere di raffinato talento esecutivo dedicate alle persone anziane, rappresentate con una visione in dichiarato confronto con l’iperrealismo.

L’elemento che l’artista ha però aggiunto con intelligenza è stato quello di utilizzare poi uno strumento concettuale che prevede pause e vuoti nella tessitura compositiva, una sorta di non finito, che, come ha scritto Vittorio Sgarbi è «uno stacco netto, una mutilazione formale […]. Attraverso questo espediente del vuoto Finelli si concederà la massima definizione di ciò che vede e di ciò che è. Il nulla dialoga con il tutto. Esiste.»

In questo senso, le cesure imposte da Finelli alle sue immagini sono, non a caso, legate ai protagonisti delle sue opere, persone anziane prossime a essere ingoiate nel vortice del tempo e della storia, svanendo letteralmente dal mondo per lasciare soltanto il rumore bianco della loro assenza.

Con la speciale capacità di intuizione e di interpretazione riservata alle arti, l’artista ci pone perciò davanti ad alcuni dei problemi più stringenti che gravano sul nostro presente e sul nostro futuro, questioni come lo spopolamento delle aree interne (specialmente di una regione come il Molise) e come l’invecchiamento della cittadinanza, a cui negli ultimi anni è stata purtroppo contrapposta una spietata visione eugenetica di rimozione.

In questo senso, sono molto significative le opere più recenti (2019), dove Finelli incornicia i suoi ritratti di vecchie e vecchi in strutture metalliche arrugginite, la cui ossidazione viene trasmessa anche alla carta.

In questi lavori, l’autore si serve di un linguaggio derivato dalle neoavanguardie, che si sono servite spesso del ferro arrugginito, come accade, ad esempio, nelle ricerche di Colla e di Burri.

La contaminazione con le ricerche polimateriche si carica, tuttavia, di un significato quasi simbolico, dove la ruggine potrebbe rappresentare un segno del tempo che corrode le cose, i volti rugosi e i corpi piegati dalla vecchiaia, raffigurati con uno sguardo poetico e partecipe che ne acuisce la presenza lirica.

La scelta dell’artista è quella di un rispecchiamento o, meglio, di un’identificazione nei suoi personaggi delle sue opere che spesso, non caso, sono intitolate Autoritratto, come se le fattezze delle sue donne e dei suoi uomini coincidessero col suo sentimento interiore e con le motivazioni più profonde della sua arte.

In questo modo si delinea con chiarezza la segreta matrice sacrale del lavoro di Finelli, una religiosità laica che cerca di salvare la sua umanità dalla scomparsa e dall’oblio.

Si può pensare infatti che i frammenti di Finelli non siano solo attraversati dalle cancellazioni, ma che possano essere invece dei veri e propri ripescamenti dal gran mare del nulla che tende perennemente a soverchiare quello dell’essere.

Finelli si cala pertanto in quell’abisso e riporta a galla mani, piedi, membra e corpi sessuati che cercano gesti e legami perduti, che indicano, chiamano, insultano richiamando le antiche azioni della vita quotidiana.

Queste (ri)apparizioni prendono quindi forma grazie alla pervicace volontà di riannodare quel contatto che dà il titolo alla mostra, dove proprio il senso del tatto si unisce a quello della vista per riaccendere relazioni, affettività e intimità che sembravano smarrite.

In tale contesto l’opera L’ascesa della luce (2018) assume un valore speciale, con la sua figura trafitta da una lancia, che l’artista ha scelto eloquentemente di installare, qualche anno fa, nella chiesa di S. Maria delle Grazie di Riccia, la sua città di origine.

Ne L’ascesa della luce, nonostante l’arma che lo colpisce, l’uomo riesce quindi a imporre il suo gesto benedicente al centro della struttura circolare dell’opera, in una sorta di dialogo cristologico tra l’uomo e il trascendente.

Questa relazione è misurata così attraverso il dolore e una ferita scandita non dal sangue, ma dalla luce che ascende nel vuoto arrestato dalla figura ricomposta intorno a quel nucleo bianco, un centro metaforico dove il volto, le mani e i piedi ci mettono infine di fronte a una speranza e a una rinascita, davanti a un ritorno compiuto grazie alla mano dell’artista che incide i suoi segni per ritrovare la forma possibile di un mondo assediato dalla voragine dell’annientamento.

IL CORPO ILLUSORIO

Di Lorenzo Canova

Un disegno rigoroso e corrosivo, un segno che unisce leggerezza ed esattezza, uno sguardo impeccabile che nella sua qualità rappresentativa mette in discussione le nostre certezze: nelle sue opere, Antonio Finelli sviluppa la sua attenzione per i volti e il mondo delle persone anziane rendendo ancora più efficace il suo metodo attraverso l’uso di una grafite portata a un grado estremo di nitore formale. Sviluppando le istanze formali e metaforiche dei suoi cicli precedenti, nelle sue opere più recenti l’artista fa scomparire infatti quasi del tutto la presenza del tratto per portare l’intera composizione a un livello ancora più elevato di illusionismo che dialoga volutamente con la fotografia.

In questo senso è evidente che Finelli collochi la sua opera in un contesto prossimo all’Iperrealismo e, in particolare, a Chuck Close, uno dei suoi massimi e riconosciuti esponenti internazionali, soprattutto per il suo interesse per il volto e il ritratto, in particolare delle persone anziane, per la grande attenzione ai particolari che l’artista trasferisce sul supporto senza alcun abbellimento nella volontà di una rappresentazione il più possibile oggettiva e priva di eufemismi nella trattazione dell’immagine, delle imperfezioni dei tratti e dei segni degli anni sui volti. Il lavoro di Finelli, infatti, è concentrato da sempre sul volto e sul corpo, sul tempo e sul suo passaggio che incide il fisico e la pelle, che lascia inevitabilmente le sue tracce arando e incidendo le fisionomie, arricchendo la profondità degli sguardi, in una rappresentazione di grande equilibrio che evita sia il facile pietismo che la tentazione del grottesco e dell’ironia.

Tuttavia, Finelli, distinguendosi da molti epigoni che ripropongono piattamente il discorso di Close, è stato capace di elaborare una sua poetica personale e una struttura dell’opera in cui l’immagine è rielaborata con una nuova forza comunicativa, allusiva e concettuale, in un discorso complesso e strutturato sul tempo, la percezione, le dinamiche sociali e gli stereotipi visivi.

Nei suoi ritratti più recenti, Finelli ha difatti scelto di lasciare delle parti incompiute, eliminando volutamente delle zone spesso decisive per il completamento delle immagini e aumentando il senso di inquietante spaesamento generato da opere dove il non-finito mette in crisi le sicurezze dello spettatore generando un vero e proprio cortocircuito visivo elaborato con una raffinata sapienza iconica e costruttiva.

Finelli ha quindi rafforzato il suo metodo compositivo, portandolo a una nota più intensa dove il suo gesto paziente fa vibrare sottilmente la materia della grafite depositata sul supporto, infondendo un senso paradossale a queste opere che appaiono allo stesso tempo bloccate in una fissità quasi allucinata e mosse impercettibilmente dalla dialettica tra le zone terminate in modo impeccabile e le parti “risparmiate” che parlano in modo ancora più eloquente attraverso il linguaggio del silenzio e del vuoto.

La solitudine e la saggezza, la felicità e il dolore, la consapevolezza e l’assenza si fondono pertanto nella sintesi limpida e incisiva dei suoi ritratti che compongono una galleria di grande rigore che però non evita la una possibile immedesimazione dell’artista in queste opere che, non a caso, intitola Autoritratti, come per calarsi nel corpo e nelle fattezze delle donne e degli uomini a cui dona una nuova esistenza attraverso la sua azione figurale.

Finelli, tuttavia, nel suo personale (iper)realismo lavora ambiguamente sull’idea dell’illusione che lega la percezione dell’opera d’arte e quella del mondo, mettendo simbolicamente in evidenza non solo i limiti della rappresentazione e della nostra visione della realtà, ma anche il limite della nostra stessa fisicità e delle singole identità in dialettica con le dinamiche collettive della vita.

In questo modo le zone bianche, le pause e le cesure di questi ritratti creano un effetto quasi drammatico che mette in rilievo quello che la rappresentazione e la comunicazione non solo mediatiche, ma anche politiche, sociali e interpersonali tendono a occultare creando un velo di illusione dove tutto viene ammorbidito e smorzato in una falsa quiete, in una tranquillità artefatta generata da una volontà di nascondimento.

Gli occhi e le bocche degli anziani sono così cancellati metaforicamente da Finelli per evidenziare forse l’illusione di normalità che tende a celare la loro stessa presenza, l’oblio che li avvolge facendo smarrire il loro sguardo e la loro voce, in un sistema in cui la loro stessa presenza fisica viene dimenticata ed espunta in un meccanismo di occultamento dove il corpo viene illusoriamente trasformato in una presenza irreale e immateriale.

PIU’ LIBERE E PIU’SOLI: I FANTASMI DELLA VISIONE

Di Duccio Trombadori

[…] La mano graffita di una persona anziana poggia sul foglio bianco, mentre una luce dall’alto la riprende e l’arto, con tutte le sue impercettibili pieghe e levigature, e’ individuato dal formarsi delle ombre, leggere o contrastate, a ridosso del contorno. Ecco il disegno-pittura di Antonio Finelli, che registra lo scorrere del tempo (come in un film di Andy Warhol) puntando la matita e l’occhio discriminante sulla morfologia degli anziani, in una sorprendente panoplìa visiva (entropia universale) che recita senza commenti un impeccabile e simbolico “de te fabula narratur”.[…]

KALÓS

Di Aurelia Nicolosi

Il bello e il brutto, due concetti su cui poeti, scrittori, artisti, hanno dibattuto per secoli. Voltaire nel suo dizionario filosofico scriveva: «Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a grinfia, e una coda».

Come sosteneva Umberto Eco spesso le  attribuzioni di bellezza o di bruttezza sono state dovute non a criteri estetici ma politici, sociali e culturali. La tematizzazione della vecchiaia, ad esempio, nelle arti figurative ha assunto durante il Medioevo un valore negativo come simbolo di decadenza fisica e morale, nel Rinascimento è diventata un divertimento burlesco, nel periodo Barocco si è trasformata in elemento positivo, quasi attrattivo.

La possibilità di ritrarre un anziano come protagonista della tela o di un’opera non è da attribuire all’Italia, quanto piuttosto ad un ambiente nordico, fiammingo e tedesco, e solo nel Seicento, quando il naturalismo raggiunge una prospettiva europea, e di conseguenza l’osservazione della vita naturale amplia notevolmente l’orizzonte della rappresentazione, la senilità ottiene una propria dimensione artistica. Nella ‘fenomenologia’ caravaggesca, così come in quella carraccesca, l’esplorazione del naturale permette finalmente agli anziani di accedere con tutta la loro forza sconvolgente all’interno della rappresentazione. Certamente anche in quel primo Seicento, pur partendo dall’osservazione dal vero,  si tiene fede ad una linea classicista convenzionale, ma le ‘rughe’ assumono nuovi valori. Si pensi a Rubens che  recupera e dà nuovo statuto all’immagine dello Pseudo-Seneca come modello dell’anziano (Monaco, AltePinakothek) che si riscatta divenendo simbolo di saggezza e autorevolezza. L’uomo, infatti, secondo il filosofo latino, deve innanzitutto adattarsi alla natura e, allo stesso modo, obbedire alla ragione, interpretata come ratio, lògos greco, divino principio che regge il mondo. La saggezza, di conseguenza, consiste in un dominio equilibrato delle passioni e non come apatia e immunità ai sentimenti. Attraverso la ragione l’uomo può vivere felice e la sapienza diventa il mezzo attraverso il quale si può raggiungere la vera libertà interiore.

Ecco, quindi, che essere anziani significa essere portatori di significati e di quella saggezza che il tempo costruisce e lascia attraverso le esperienze quotidiane. La meraviglia, il sublime, l’eccezionale scaturiscono proprio da tale condizione e Antonio Finelli la coglie in pieno. Utilizzando la matita egli rende omaggio a una fase della vita dell’uomo che è molto complessa e delicata, dove i solchi sulla pelle sono il segno di sentimenti vibranti e potenti, espressione di quella spontaneità, di quella purezza e di quella fragilità, che si ritrova solo nei bambini. Il suo disegno, inoltre, nobilita ogni difetto, ogni perdita, ogni mancanza;  con la sua immediatezza ed efficacia espressiva unisce l’uomo e il mondo. Vive attraverso la magia come sosteneva Keith Haring e dà forma all’invenzione come scriveva il Vasari.

Molti desiderano vedere nei quadri ciò che amano nella realtà. Ma questa predilezione per i soggetti piacevoli può essere dannosa e ci induce a respingere opere che rappresentano quello che non riteniamo attraente. Non c’è peggior ostacolo al godimento delle grandi opere d’arte della nostra resistenza a superare abitudini e pregiudizi. I concetti di bellezza e di espressività di cui si preoccupano i profani raramente vengono menzionati dagli artisti (E.H. Gombrich). La vera Arte è imponderabile e da essa non si finisce mai di imparare. Per Finelli è esaltazione della vita stessa: nessun memento mori ma solo balsamo per l’anima.

DE SENECTUTE

Di Maria Laura Perilli

 […] Antonio Finelli, indaga il mondo della “vecchiaia” e lo fa con lo strumento a lui più congeniale: il disegno. Il suo tratto è dolce solo all’apparenza; è in realtà pieno di una forza incisiva che scava ed analizza muovendosi tra le pieghe dell’epidermide, facendo affiorare dal profondo dell’esistenza le vicissitudini che il vecchio ha attraversato.

[…] I vecchi di Finelli non sono, infatti, rassegnati; sono consapevoli della loro capacità di recuperare, appunto, un approccio qualitativo e significativo al proprio tempo.

[…] I disegni di Antonio Finelli rimarcano, quindi, con decisione, che il vecchio non sarà più “disperatamente al margine di tutte le correnti” ricordando che per nessuno esiste l’esclusione dalla vecchiaia.

PELLE

Di Roberta Gubitosi

Nelle sue opere Antonio Finelli riflette sul significato del tempo che inesorabilmente lascia le sue tracce sul nostro corpo. Una serie di volti scorre di fronte all’osservatore, ognuno con la fisionomia, l’espressione e il vissuto personali. Con un punto di vista ravvicinato l’artista si sofferma sui dettagli attraverso lo scrupoloso procedere dei segni della matita, che in base alla pressione del gesto definiscono i caratteri nei singoli particolari, quasi a voler ripercorrere  il tempo passato. Sebbene i soggetti siano spesso persone conosciute, scompaiono i riferimenti al contesto, all’identità, allo status, e ai  ruoli ed emerge la necessità di cogliere l’uomo nell’essenziale rapporto con il tempo. L’uomo è rappresentato nell’unità e al contempo nella moltitudine in una sequenza ininterrotta di immagini che registrano un processo continuo nella linea del tempo.  La ricerca e la perizia tecnica riescono a sviluppare le infinite possibilità grafiche, chiaroscurali e pittoriche della grafite, infondendo a ogni volto un’insolita forza realistica, accompagnata a un’immediatezza comunicativa data dal taglio fotografico. Nel carattere prettamente grafico delle sue opere, Antonio Finelli sviluppa una ricercata e raffinata cromia di grigi e di bianchi, capace di registrare anche le minime e  sottili variazioni di luce.

Nella successione dei volti, la pelle si fa linguaggio, espressione, racconto. Intesa come superficie/limite, la pelle è capace di manifestare ed esternare i segni del tempo; è la nostra parte visibile e tangibile che registra i cambiamenti dell’esistenza, inventariandone ogni traccia come fosse un catalogo infinito. In questo senso rivela la storia di un individuo, i suoi drammi e le sue gioie; ne tradisce le emozioni più profonde. Solo alcune poi vengono scelte dalla mente razionale per divenire ricordi, in base all’intensità emozionale generativa a cui sono legate, in positivo o in negativo. Quindi la pelle, nella sua essenza di membrana e di confine diviene interfaccia del rapporto tra uomo e mondo. In tale relazione gli occhi, tradizionalmente specchio dell’anima verso l’esterno, riflettono al contempo le immagini del mondo all’interno.

La pelle, piena di segni e di esperienze nascoste, quindi si esprime attraverso un proprio linguaggio, non verbale, che si può conoscere nel momento in cui l’artista comincia a registrarne e indagarne i particolari. Ogni volto con la sua superficie corruttibile e mutevole diviene una sorta di pagina scritta attraverso un linguaggio solo apparentemente incomprensibile. Nel lento processo grafico, Antonio Finelli sembra voler scrutare e decodificare quei segni come tracce che l’inesorabile trascorrere del tempo ha registrato sulla superficie dei volti, invitando il fruitore a leggere, interpretare la superficie come specchio del vissuto. Decidere di imparare quel linguaggio significa cercare di capire il proprio corpo. Così il segno viene a essere voce in un autoritratto in cui la pelle racconta il proprio passato, la propria storia.